Distilliamo? Tanti tipi, un unico piacere.
Tanti tipi per tutti i gusti, i distillati sono pronti a stupire i palati più raffinati e non; e allora resta solo una cosa da dire: distilliamo?
Non sono una novità, nemmeno per il nostro Paese, dove sono arrivati solo in un secondo tempo; però stanno conoscendo una significativa crescita di popolarità negli ultimi tempi.
Stiamo parlando dei distillati di birra, tipici del Nord Europa (chiamati eau de vie in Belgio e Bierbrand in Germania).
Per quanto potrebbero sembrare qualcosa di affine ai whiskey, si tratta di due prodotti diversi.
Il primo infatti viene ottenuto distillando il mosto di malto d’orzo o altri cereali fermentati, mentre nel secondo caso si va a distillare una birra giunta già a fine processo produttivo.
Una tradizione, si diceva, nata nelle terre brassicole nordeuropee; ed arrivata in Italia, Paese per eccellenza della grappa, anche in virtù della sua diffusione negli Stati Uniti, terra che storicamente detta legge nella diffusione delle tendenze di consumo.
Lì infatti già agli inizi degli anni 2000 alcuni tra i più grandi e rinomati birrifici artigianali, come Rogue e Dogfish Head, hanno lanciato sul mercato prodotti di questo tipo ispirandosi ai gin (anch’essi distillati ottenuti da cereali, e aromatizzati generalmente con una miscela di erbe e spezie).
Proprio in quegli anni iniziavano anche i primi esperimenti tra i birrifici in Italia, dove il distillato di riferimento era appunto la grappa: e tra i pionieri ci sono stati nomi come Theresianer con la Bierbrand e Baladin con la sua Esprit de Noel (a cui è seguita l’Esprit Baladin).
Non solo birrifici, però: in realtà a sperimentare in questo senso sin dal 1995 è stata una distilleria, la vicentina Capovilla con relativi problemi normativi, in quanto la legge italiana non prevedeva la commercializzazione di questo tipo di distillato.
L’escamotage fu quello di utilizzare il nome tedesco, e proprio a Capovilla si è poi rivolta anche Theresianer.
Già, perché la collaborazione con le distillerie rimane centrale: è infatti poco realistico per un birrificio acquistare da sé l’attrezzatura necessaria e garantirsi le relative competenze internamente all’azienda, per cui la prassi è appunto quella di esternalizzare la produzione dei distillati.
Altro ostacolo non indifferente è la bassa resa.
A seconda del tipo di birra da cui si parte e della gradazione finale che si vuole ottenere dal distillato, servono quantità di birra pari anche a otto volte la quantità di prodotto finale.
Insomma, un grande dispendio sia in termini logistici che economici; che, per quanto consenta ai birrifici, come fatto ad esempio dal belga 3 Fonteinen, di recuperare anche scarti di produzione oltre che di diversificare l’offerta, risulta comunque tale da poter costituire solo una parte marginale della propria attività.
Eppure negli ultimi anni sono stati diversi le distillerie e i birrifici, anche piccoli, che hanno intrapreso questa strada; spesso in virtù di un legame con il territorio, magari perché essi stessi azienda agricola e vinicola che già conferiva le vinacce per la produzione di grappa.
Ci appoggiamo ad una distilleria locale, spiega infatti Mirco Masetti, birraio del birrificio Gjulia di San Pietro al Natisone (Udine), che dal 2018 produce il distillato San Peter, del resto siamo terra di grappe, quindi ci è risultato naturale.
Gjulia ha scelto di partire da un Barley Wine di 10 gradi, che dopo la distillazione viene invecchiato in botti di rovere per 24 mesi: e c’è da ricordare infatti che il passaggio in botte è uno degli aspetti chiave nella differenziazione tra i diversi distillati di birra, sia a livello di colore quelli non affinati sono generalmente chiari, gli altri ambrati che di caratteristiche organolettichei primi sono più incentrati sulle note di malto, i secondi su quelli del legno.
A detta di Masetti, l’abitudine a considerare la grappa come distillato per eccellenza non ha influito negativamente nell’accoglienza di questo prodotto: tutt’altro.
Ho anzi visto molta curiosità, riferisce, i giovani bevono sempre meno grapa, mentre di fronte ad un distillato di birra si incuriosiscono.
Soprattutto, con i distillati si aprono notevoli opportunità a livello di mixology: Nel nostro Agriristoro lo usiamo per fare il Mojito e l’Irish Coffee, che sono molto apprezzati .
C’è infine da ricordare che l’interesse per i distillati ha risvegliato anche quello per altri liquori.
Il già citato Baladin si è lanciato ad esempio anche nell’Amaro e nel Beermouth (ispirato ai vermouth, strada poi seguita anche da altri).
Altri ancora hanno puntato ai liquori, lasciando in infusione in alcol malto, orzo, luppolo e zucchero.
Insomma, c’è di che lavorare di fantasia.
E non solo con la birra, comunque: come riferisce Federico De Carlo, spirits manager della Cursano Distribuzione (la maggiore azienda del settore nel leccese), l’interesse per i distillati sta crescendo, in particolare per quelli artigianali.
Il mercato sta cambiando in positivo, con un ritorno alle produzioni autentiche e al km zero che coinvolge tutto il settore enogastronomico, riferisce.
La territorialità e l’artigianalità esercitano un forte ascendente specie sui giovani, che preferiscono bere meno ma bere meglio, spendendo magari un po’ di più pur di avere la qualità.
Che è del resto anche la nostra filosofia.
Non a caso, una delle linee di distillati che la Cursano distribuisce con maggior successo è la Valdotaine: una grappa, una vodka, un gin, un vermouth e un amaro, tutti artigianali e di notevole originalità (il gin ad esempio è prodotto sottovuoto).
Ma il vero pezzo unico, nato da un esperimento domestico di Federico, è il Gin8: Avevo iniziato mettendo in infusione un pasticciotto, tipico dolce salentino, spiega, di qui anche il nome.
La cosa è ben riuscita: ed ora, adattato il procedimento, lo produciamo su scala più ampia.
È un pezzo unico al mondo, perché nessuno si era mai avventurato nel mettere insieme gin e pasticceria. Insomma, pare che nel campo dei distillati ne vedremo ancora delle belle, e che ne vedremo proprio da parte italiana.
di Chiara Adreola